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Studi storici sui dialetti della Sardegna Settentrionale di Mauro Maxia – Capitolo 7

Scritto da carlo moretti

Capitolo 7

Alle origini del gallurese

Dove e quando di preciso insorsero i trattamenti rt > lt, rd > ld, rk > lk, rg > lg e come si estesero fino ad abbracciare tutto il settentrione della Sardegna? Questo discorso, come si vedrà appresso, investe in pieno il problema della formazione del dialetto gallurese.

La prima documentazione letteraria del gallurese è rappresentata dal corpus di poesie del religioso tempiese Gavino Pes, più noto col nome di Don Baígnu, la cui attività si dispiegò interamente all’interno del Settecento. 148

Orbene, per fonetica, morfologia, sintassi e lessico le composizioni del Pes non differiscono affatto dall’odierno gallurese comune che ha il suo centro di riferimento proprio in Tempio. Le uniche differenze sono date, a livello lessicale, da un buon numero di spagnolismi ormai parzialmente caduti in disuso.

Il gallurese del ’700 presenta dunque una veste assai simile a quello contemporaneo. Fra i suoi tratti fonetici più significativi si rileva proprio la costante risoluzione rk, rg > lk, lg; rt, rd > lt, ld; rp, rb > lp, lb. Esempi: palchí “perché”, impultanti “importante”; viltuosu “virtuoso”; immoltali “immortale”, taldá “tardare”, palditti “perderti”; impliá “emplear” (sp.), ecc 149.

Nel còrso moderno questi esiti non sono affatto sconosciuti (v. cap. 7). Non mancano casi di s > r come, ad es., altóre “astore” per astore (gall. altóri) oppure di r per l, come in partinaca “pastinaca” per pastinaca. Ma, contrariamente al gallurese, in cui il fenomeno del lambdacismo rappresenta la regola, nel còrso si tratta di esempi sporadici ben lontani, per quantità, dalla situazione dello stesso logudorese sett. e di ampie zone del logudorese comune che si spingono fino alla linea che unisce Bosa a Bonorva, Osidda e Budoni, centri lontani da cinquanta a oltre cento chilometri dall’area di irraggiamento del fenomeno.

Oltre a questo peculiare aspetto, vanno segnalati altri trattamenti che, pur mantenendo il gallurese nell’àmbito del còrso oltremontano, lo differenziano a tal punto da renderlo una varietà nettamente autonoma. È il caso, per es., della caduta della fricativa labiodentale sonora in posizione intervocalica (còrso avé, móve, primavéra, gréve; gall. aé, muí, grái).

Nel còrso odierno anche questo fenomeno non è sconosciuto, come documenta, ad es., la caduta di v- preceduto da sillaba  atona; es.: lu ’ól’u “lo voglio”. Ma si tratta pur sempre di scostamenti rispetto alla regola generale che invece ne vuole il mantenimento.

Un altro tratto caratteristico del gallurese è rappresentato dall’assimilazione progressiva del nesso -rn-, tipica del sardo (còrso turná, gall. turrá); del trattamento kù- > k- che appare antico (còrso: questu/quistu, quessu, quici, quiɖɖu/quillu, quindeci vs. gall. chístu, chissu, chíci, chíɖɖu, chíndici); del perfetto in -ési, -ísi documentato già nel Cinquecento e oggi unica uscita del gallurese, mentre nel logudorese sett. è caduto in disuso di fronte alle più antiche uscite in –ei impostesi alle forme medievali in -ai.

Il lessico gallurese per circa il 18-20% è rappresentato da prestititi logudoresi acquisiti da un tempo imprecisabile.

Anche il còrso, però, una volta trapiantato nella parte settentrionale della Sardegna, produsse un influsso notevole.

Forme còrse come cascio “formaggio” sono attestate in logudorese, sia pure con diversa veste grafica (caxu), fin dal Settecento 150.

Già nel Settecento il gallurese era infarcito di spagnolismi e i prestiti catalani non erano inferiori per numero a quelli castigliani. Per gran parte di queste voci d’accatto va osservato, anzi, che il gallurese si mostra più conservativo del logudorese. Ora, si sa che l’influsso catalano nella Sardegna settentrionale cominciò ad arretrare fin dalla seconda metà del ’500 e che l’uso di questa lingua si protrasse fin verso la metà del Seicento ma quasi soltanto come codice linguistico delle più alte gerarchie ecclesiastiche 151. Quindi già nel primo Seicento il catalano doveva conoscere una fase di irreversibile regresso. Donde proviene, allora, la presenza di tantissime parole catalane al gallurese?

Di fronte a questi dati, si può credere, col Gamillscheg 152 e col Wagner 153, che l’immigrazione còrsa in Sardegna iniziasse soltanto alla fine del sec. XVI secolo e che il dialetto gallurese si sia affermato solamente dopo una numerosa immigrazione che sarebbe avvenuta agli inizi del XVIII secolo?

Vi è da dire, intanto, che il Wagner non prestò alla questione un livello di attenzione paragonabile a quello riservato al sardo se non nel momento in cui entrò nella polemica relativa alla posizione da assegnare al sassarese e al gallurese nel contesto dell’italiano e del sardo. Le sue trascrizioni del lessico gallurese presentano un numero di errori così elevato che stentiamo ad attribuirli a uno studioso di tale levatura 154.

In realtà le parlate còrse della Sardegna non sono soltanto espressione di una migrazione rustica ma, specialmente il sassarese con le sue sottovarietà, si caratterizza per la tendenza a formare colonie nei contesti urbani dei centri sardi del settentrione. Tale è il caso, documentato dalla toponimia, dei centri di Sassari (via dei Corsi), di Sedini (Cabbu Còssu “rione còrso”) e di Castelsardo (Mèzzu Tèppa “(rione a) mezza costa” < còrso tèppa “balza”).

Queste ondate migratorie dovettero avere come punti di approdo, rispettivamente, il porto di Torres per l’area sassarese, Castelgenovese per l’Anglona e Longonsardo per la Gallura. Fra i punti di imbarco, invece, sicuramente un posto privilegiato spetta a Bonifacio, di cui già agli inizi del terzo decennio del Trecento sono ben documentati i rapporti con Castelgenovese e, in generale, con tutto il settentrione sardo. Ma altri gruppi di una certa consistenza, come si vedrà meglio appresso, dovevano provenire da determinati contesti geografici e dialettali della Corsica. Si spiega in questo modo il fatto che talune forme abbiano attecchito in un determinato punto mentre risultano sconosciute in altri. È il caso, ad es., del cast. [mağèndula] < crs. Magènula 155 “mascella, ganascia, correggiato, flagello”, derivato di [mağğá] “percuotere col correggiato”, che si è cristallizato nella locuzione idiomatica castellanese [e ki mmağèndula!] “che seccatore,-trice che sei!”.

Del resto, questa tendenza si apprezza anche nel dialetto della Gallura dove i centri abitati e il contado hanno due “registri” che gli stessi galluresi non mancano spesso di rilevare. Uno, “alto”, è quello rappresentato dalle varietà di Tempio e dei vicini centri di Calangianus, Nuchis e Aggius, le quali rappresentano i nuclei più antichi della colonizzazione urbana in Gallura. L’altro, “basso”, è il cosiddetto suiɖɖátu di lu pasturíu “linguaggio dei pastori”, cioè la varietà della popolazione sparsa negli stazzi, che si connota per il lessico effettivamente rustico, motivo per il quale i locutori dell’agro sono esposti spesso allo scherno dei ‘cittadini’ di Tempio.

È documentato che già verso la metà del Cinquecento, oltre al borgo di Castelsardo, anche l’agro era interessato dall’insediamento sparso di gruppi di origine còrsa frammisti a gruppi autoctoni. Si tratta, a ben vedere, di una situazione pressoché identica a quella odierna. Niente di più coerente, quindi, se lo stesso tipo di insediamento caratterizzasse, durante il medesimo periodo, anche i centri della Gallura.

La prova più evidente che le ondate migratorie interessavano gruppi socialmente e linguisticamente coesi è data dalla parlata di Calangianus, la quale si differenzia da quella di Tempio per due precisi caratteri fonetici. Il primo è rappresentato dalla risoluzione –ARIU > -ác˝c˝u vs. -ág˝g˝u; es.:

friác˝c˝u [friác˝c˝u] “febbraio” vs. friággju [friág˝g˝u].

Il secondo è fornito dalla costante occorrenza di –p- anche nei contesti in cui il gall. comune richiede –b-; es.: calang. púcchju [púc˝c˝u] “buio” anziché búggju [búg˝g˝u]; spucchjá [spuc˝cá] ˝“sbucciare” anziché sbucchjá [sbuc˝c˝á]. Si tratta di due risoluzioni che in Corsica rappresentano altrettante varianti diffuse e concorrenziali rispetto al trattamento che viceversa si è imposto nel sassarese e nel gallurese.

Che la migrazione còrsa verso la Sardegna non si sia mai interrotta del tutto è ben documentato dal caso di S. Teresa di Gallura. Questo è infatti il centro che intrattiene maggiori contatti con la Corsica per via del regolare collegamento marittimo con Bonifacio. Non a caso, quindi, presenta rispetto agli altri centri una più alta densità di cognomi di origine còrsa 156 quantunque l’abitato sia stato fondato soltanto agli inizi dell’Ottocento. Ciò vale anche sotto l’aspetto linguistico, in quanto la parlata teresina, dopo il maddalenino che è còrso tout-court, è quella che mostra una maggiore vicinanza al còrso.

Né Wagner né gli altri studiosi che si interessarono della questione dovettero scorrere con sufficiente attenzione la citazione del Fara sulla situazione demografica della Gallura nella seconda metà del Cinquecento 157. Il Fara, infatti, mentre scriveva che la Gallura era completamente disabitata, intendeva riferirsi alla mancanza di centri abitati. Infatti, poi precisava:

…multique ex illis pastoriciam et agrestem cum tota familia in montibus degunt vitam, mille greges illi totidemque armenta per herbas pascunt…”. 158

Si tratta di una descrizione che corrisponde abbastanza fedelmente a quella offerta da Vittorio Angius per gli anni ’30-’50 dell’Ottocento. Se è vero che degli antichi centri abitati restavano soltanto quelli di Terranova, Aggius, Bortigiadas, Calangianus, Luras, Nuchis e Tempio, il territorio risultava interessato da un diffuso insediamento sparso. La presenza di molti pastori con le rispettive famiglie va letta come una testimonianza dell’esistenza del “modulo abitativo” dello stazzo fin dal Cinquecento. Le campagne della Gallura, dunque, era popolate da un numero piuttosto elevato di famiglie, il quale va stimato in rapporto al numero degli armenti. E poiché il Fara parla di migliaia di branchi, si può concludere che già nel 1580 nella Gallura vivevano alcune migliaia di pastori (còrsi) con le loro famiglie. Anche se questo dato potrebbe fare sorgere qualche perplessità, sotto il profilo demografico va considerato che nella seconda metà del ’500 il livello della popolazione europea toccò un apice che, dopo le carestie e le epidemie del ’600, fu raggiunto soltanto verso la metà del ’700. Ora un censimento spagnolo effettuato nel 1583, i cui dati sono stati pubblicati recentemente, 159 conferma questo quadro attribuendo alla Gallura Geminis (escludendo cioè il semidistrutto villaggio di Terranova e il suo agro disabitato) un numero di fuochi compresi fra 1.765 e 1.942. Moltiplicando questi dati per tre o per quattro si ottiene un numero di abitanti compreso fra i 5.300 e 7.700 che si dimostra coerente con la testimonianza del Fara.

Tutto ciò concorda pienamente con la distribuzione della popolazione gallurese alla metà di questo secolo allorché, mentre si consolidavano i nuovi agglomerati di Arzachena, Aglientu, Badesi, Bassacutena, Berchiddeddu, Loiri, Luogosanto, Palau, S. Pantaleo, S. Pasquale, S. Teodoro d’Oviddè, Telti, Trinità d’Agultu, Viddalba, la campagna era ancora fittamente abitata dai pastori e dalle loro famiglie che occupavano circa 2.500 stazzi.

Quindi è da escludere che la migrazione còrsa iniziasse soltanto alla fine del Cinquecento o durante il Seicento, come credevano Gamillscheg, Le Lannou e Wagner. Al contrario, il popolamento delle campagne costituiva già da allora una realtà ben radicata, originatasi progressivamente a seguito dell’abbandono dei villaggi galluresi che, come è risaputo, avvenne in gran parte durante il quarantennio compreso fra la pandemia del 1347-48 e il 1388, anno in cui fu siglata l’ultima pace fra la Corona d’Aragona e i Sardi riuniti sotto la casata d’Arborea alleata con i Doria.

Ciò non toglie che questa presenza così diffusa di nuclei di origine còrsa continuasse ad essere alimentata, ancora nel Seicento e anche nel Settecento, da nuovi immigrati còrsi. È probabile, tuttavia, che nel Cinquecento e forse anche negli ultimi secoli bassomedievali la Gallura, compresi i villaggi veri e propri, fosse abitata maggioritariamente da genti di origine còrsa.

Questo aspetto si desume per altro verso, considerando il forte influsso prodotto dal sassarese e dal gallurese nei confronti del logudorese. Il fatto più eclatante è rappresentato dalla formazione del nuovo dialetto che va sotto il nome di logudorese settentrionale. Anche in questo caso le opinioni degli studiosi che si sono avvicinati al problema, i quali attribuirono all’influsso toscano e continentale l’origine dei fenomeni fonetici e dei fatti lessicali che lo caratterizzano, appaiono da rivisitare in larga parte.

In primo luogo si deve porre l’attenzione su un dato generalmente trascurato e cioè che l’influsso italiano nella Sardegna settentrionale cessa, per quanto riguarda il toscano, entro la prima metà del Trecento e, per quanto attiene al genovese, entro la metà del Quattrocento. Difficilmente si può ritenere che le ridotte correnti culturali italiane che ancora fino al ’500 toccarono ristrette fasce sociali potessero produrre particolari influssi sulla lingua del popolo.

D’altra parte, sotto il profilo fonetico, gli unici fenomeni rimarchevoli derivati dal toscano e dal genovese sembrano costituiti, rispettivamente, dalla palatalizzazione in logudorese dei nessi /kl/, /fl/, /pl/, e dal passaggio -l- > -r – nel sassarese. Le prime occorrenze delle palatalizzazioni cominciano ad essere documentate, sotto forma di interferenze, durante la prima metà del ’400 nel Codice di S. Pietro di Sorres 160. Per quanto riguarda il passaggio l > r nel sassarese non si dispone invece di alcun riferimento cronologico.

Questo quadro di massima può testimoniare del fatto che gran parte dell’imponente serie di fenomeni linguistici che va sotto il nome di logudorese sett. dovette prodursi in un periodo successivo. Per quanto riguarda la conservazione di [r] nei nessi consonantici, ad esempio, i documenti cinquecenteschi non conservano tracce del passaggio a [l]. Ciò può essere dovuto al fatto che gli atti venivano compilati dall’elemento acculturato, il quale era leale rispetto alle forme corrette e difficilmente doveva recepire innovazioni che avvenivano nel parlato 161. Ma gli esempi per l’Anglona non mancano: -lts- > š, č (asciare, alciare per alzare “salire” 162); -skl- > š (afixare per afliscare) 163; -or- > -ar- (Tocaro per Ithoccor). 164

Diverso è il caso degli antroponimi e dei toponimi che anche gli scribi registravano fedelmente rispetto alle forme in uso nel momento. Qui il discorso si fa più chiaro, poiché i nomi, i cognomi e i toponimi registrati all’interno del ’500 attestano una serie di modificazioni già in atto. Da determinate interferenze, rappresentate da alcuni cognomi non soltanto di origine toponomastica, sappiamo che la parlata castellanese doveva essere già in uso nella penultima decade del Cinquecento. È il caso, per es., della forma Cicau, che rappresenta la pronuncia locale del toponimo còrso Zicavu, oppure della forma Larinzòni, altro cognome tuttora attestato a Castelsardo, nella quale si osserva la tipica apofonia del sassarese e gallurese (la forma etimologica, riflessa nella grafia ufficiale, corrisponde a Lorenzoni). Certi tratti fonetici del castellanese e del sedinese, come il rafforzamento delle liquide e la lenizione delle occlusive in posizione intervocalica, si possono già apprezzare nella forma Bastelliga, che rappresenta la locale pronuncia cinquecentesca del toponimo còrso Bastélica.

Di fronte a questi dati il quesito che occorre porsi è il seguente: se, come ritiene Le Lannou e con lui il Wagner, i primi gruppi còrsi arrivarono in Gallura soltanto sul finire del ’500 e si fecero consistenti soprattutto nel ’700, come mai l’influsso còrso è apprezzabile a livello grafico già nel ’500?

Non è possibile che nel logudorese il passaggio r + occlusiva > l + occlusiva sia avvenuto soltanto nel Settecento.

Già per il 1723 si dispone di una documentazione del caratteristico esito aspirato del logudorese settentrionale, attestato mediante la grafia sastaina per sartáina a Ittireddu 165.

La risoluzione -rt- > -st- presuppone infatti una fase precedente in cui -rt- > -lt-; pertanto è necessario retrodatare ancora questo fenomeno che abbiamo visto essere ben documentato nel còrso odierno ma che risulta attestato in Anglona, dove dovette essere portato da elementi còrsi o continentali, già durante i primi decenni del Trecento.

Riguardo alla cd. “lisca logudorese”, non si vede come possa essere derivata da quella toscana se si valuta che la sua insorgenza in Sardegna non mostra alcun riferimento storico rispetto alla Toscana. L’influsso toscano era cessato col dominio di Pisa sulla Gallura, spentosi nei primi decenni del XIV secolo. A Sassari la presenza pisana era scemata già agli inizi del Duecento col cambio di alleanze da parte del Giudicato di Torres, col successivo collasso di quest’ultimo e con l’erezione del comune autonomo. Gli influssi successivi, al contrario, provengono dalla Corsica, i cui dialetti, lungi dal manifestare fenomeni assimilabili alla lisca, mostrano un certo conservatorismo appena intaccato da episodici casi in cui oggi /r/ + occlusiva passa a /l/.

È ben vero che ancora nel Cinquecento a Sassari l’italiano era la lingua della cultura (Turtas). Nessun dato, però, autorizza a credere che i contatti derivanti dall’abitudine delle famiglie più benestanti di mandare i propri figli a studiare nelle università della penisola fossero tali da costituire un veicolo della lisca toscana. Del resto, i contorni all’interno dei quali questo fenomeno fonetico insorse in Toscana non sono ancora stati chiariti, per cui parlare meccanicisticamente di influsso toscano, almeno sotto questo peculiare aspetto, appare azzardato.

Tornando alla forma sastaina, occorre considerare che il punto di irraggiamento in cui [rt] passa a [lt], che deve essere individuato nella città di Sassari, da cui il villaggio di Ittireddu dista una cinquantina di chilometri. Non solo, ma Ittireddu è situato lungo l’estremo limite meridionale dell’area interessata dal fenomeno delle aspirazioni in fonia sintattica.

L’attestazione del fenomeno in un punto così lontano dal centro dell’innovazione porta dunque alla conclusione che gran parte dell’area che oggi costituisce il dominio logudorese sett. doveva esserne stata conquistata prima del Settecento.

Il flusso migratorio osservato da Le Lannou non fu che l’ultima ondata venuta a sovrapporsi a una situazione demografica radicatasi già da alcuni secoli. Il limite delle indagini del geografo francese sui quinque libri delle parrocchie galluresi è rappresentato dal fatto che in molti casi questi documenti sono disponibili soltanto a partire dalla seconda metà del Seicento o addirittura dal Settecento, per cui nulla si sa circa la situazione precedente. Se si potesse disporre di questi documenti fin dal Cinquecento, come è il caso di Castelsardo, probabilmente le conclusioni sarebbero di ben altro tenore e acquisirebbero un carattere più generale.

Il distacco del sassarese e del gallurese dal còrso rappresenta un fatto relativamente antico. Le differenti risoluzioni fonetiche, come, per esempio, la generalizzazione dell’epitesi, la presenza di morfemi sconosciuti in Corsica, le innovazioni nella costruzione del periodo, la massiccia quantità di prestiti logudoresi e catalani, l’influsso prodotto per tempo sul logudorese e sullo stesso catalano di Alghero rappresentano altrettante prove di una fase di ambientamento attraversata da queste nuove parlate in un periodo che sembra iniziare già nel primo Trecento e si protrae fino alla prima metà del ’600.

Dopo questa prima fase le tre nuove varietà scaturite dall’incontro fra il corso e il sardo, due di “tipo” toscano (sassarese e gallurese) e una di “tipo” sardo (logudorese settentrionale), dovevano avere ormai acquisito la veste che conservano ancora oggi, come testimonia la maturità della lingua dei brani poetici logudoresi della fine del ’500 e quelli galluresi del ’700.

Nel periodo successivo, per quasi due secoli, tutte e tre subiranno l’influsso dello spagnolo che in parte affiancherà e in parte si sovrapporrà a quello catalano. Frattanto continuavano i reciproci scambi lessicali e, col nuovo sopraggiungere dell’elemento italiano, insorgeranno non poche di quelle forme.

Alla sconfitta degli Arborea (1410) e dei Doria (1420-1448) da parte della Corona d’Aragona dovette seguire un lungo periodo in cui, cambiati i punti di riferimento politici e culturali, la Sardegna settentrionale diventò, forse in misura maggiore di quanto avvenne durante il Duecento, un crogiuolo in cui i concorrenti influssi linguistici determinarono l’affermarsi di alcuni noti fenomeni fonetici e un forte interscambio lessicale che interessò i dialetti di Sassari, della Gallura e del Logudoro nordoccidentale, intaccando lo stesso catalano di Alghero. Non altrimenti si spiega l’elevato numero di catalanismi nel gallurese e la presenza di prestiti còrsi nel logudorese che raggiungono perfino il Nuorese. Valga come esempio la fortuna del suffisso etnico di origine còrsa, –íncu, che in Sardegna designa gli abitanti di centri galluresi (lurisincu, nuchisincu), del Sassarese (sussincu) ma anche quelli di centri che, sebbene lontani dal punto d’irradiazione (Sassari), rientrano nella zona raggiunta dall’innovazione: tiesincu (di Thiesi), morincu (di Mores), padrincu (di Padria), bosincu (di Bosa) e logudoresi settentrionali che lo stesso Wagner spesso definiva “strane”.

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Note:

148 Recentemente è stato pubblicato un canzoniere ispano-sardo della  seconda metà del Seicento contenente anche tre componimenti in una varietà che presenta tratti comuni al gallurese e al sassarese (cfr. Andrea Deplano, in Tonina Paba, Canzoniere ispano-sardo, Cagliari, 1996, pp. 287- 288; 292-297). Mentre il presente lavoro viene licenziato per la stampa, F. Corda propone una restituzione in senso gallurese delle due canzoni più lunghe (cfr. l’articolo Primavera e fiore della poesia gallurese, in “Sardegna Mediterranea”, n. 6, ottobre 1999, pp. 10-16). La sua proposta, tuttavia, dal punto di vista filologico si presta a vari rilievi; per es.: è stata assordita l’occlusiva dentale sonora rafforzata in contesto intervocalico, che rappresenta un tratto caratteristico del sassarese; è stata espunta la fricativa labiodentale sonora (-v-) che è tipica dell’imperfetto indicativo del sassarese; sono state rese con –l- le occorrenze di –r-, ciò che rappresenta un altro aspetto specifico del sassarese.

149 Cfr., Don Baignu (GavinoPes). Tutti li canzoni, a cura di G. Cossu, Cagliari, 1980.

150 Cfr. ARCHIVIO PARROCCHIALE DI S. MARIA DEGLI ANGELI, Perfugas, Libro di Amministrazione di S. Giorgio de Ledda, passim; di questa forma, oggi riassorbita da casu, resta tuttavia una testimonianza nelle forme [kažađína] e [kađažína] “formaggella” attestate rispettivamente a Chiaramonti e Nulvi.

151 Sull’uso del castigliano durante il Cinquecento cfr. i documenti pubblicati dal Turtas (v. supra); il Codex Diplomaticus Sardiniae ne presenta anche alcuni quattrocenteschi.

152 GAMILLSCHEG, Studien zur Vorgeschichte einer roman. Tempuslehre, p. 72.

153 LLS, pp. 345-346.

154 LLS, pp. 396-397.

155 FALCUCCI, p. 224.

156 Cf. i cognomi Antona, Alfonsi, Boccognani,-o, Bríccoli, Còmiti, Culioli, Ferrandíco, Fieschi, Franceschini, Lantiéri, Luciani, Marcellesi, Murrazzani, Nicolai, Nícoli, Ogno, Pangráni, Pasquali, Poggi, Poli, Quiliquini, Rubbiani, Scaglia, Tramoni, Soláro, Sorba, Verrina, Vincentelli, per i quali l’ufficio anagrafe del Comune di S. Teresa Gallura, appositamente interpellato, assicura un’ascendenza còrsa (per la gradita collaborazione ringrazio espressamente la dott.ssa Angela Rita Carrusci). A questi cognomi vanno aggiunti anche i seguenti: Bonifacino, Giorgioni, Godelmoni, Misiscia, Rustaggia, Sardo, Tummeacciu.

157 FARA G. F., Opera, I, 226.

158 FARA G. F., ibid,

159 Cfr. G. SERRI, “Due censimenti inediti dei «fuochi» sardi: 1583 e 1627”, in B. Anatra, G. Puggioni, G. Serri, Storia della popolazione in Sardegna nell’epoca moderna, “Quaderni di Agorà”, 1, Cagliari, 1997, p. 90.

160 Cfr., SANNA A., Il codice di S. Pietro di Sorres, cit., pp. XXXI-XXXII. Vedi cap. 10.

161 Sulle motivazioni della rarità delle interferenze nei testi scritti si leggano le pertinenti osservazioni del Wagner in FSS, pp. 313-314 e di SANNA A., Il codice di S. Pietro di Sorres, cit., pp. XXIX-XXX.

162 DA, p. 226, r. 33: “ascende” vs. r. 38: “alzat”; p. 227, r. 6: “alcende”.

163 Ibid., r. 39.

164 DA, p. 229, r. 13.

165 SATTA D., Itiri fustialbos. Origini ed evoluzione di un villaggio, Ozieri, 1991, P. 228, terzultima riga.

 

STUDIUM ADF

Sassari – 1999

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© Mauro Maxia

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