Scritto da carlo moretti
Di Grazia Deledda:
Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l’ultima, e guardava già per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie.
Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendenti ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani.
In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di muschio giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza.
Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicita sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l’aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l’avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l’erede?
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Scritto da carlo moretti
Di Grazia Deledda:
Zio Salvatore, il nostro vecchio fattore, cominci:
- Figlioli miei, io non sono stato sempre agricoltore: ero nato per diventare qualcosa di grande, prete almeno, ma i casi e l’estrema povertà della mia buona mamma, non lo permisero. Tuttavia durante la mia fanciullezza feci il sagrestano nella nostra chiesetta di San Giuliano, e solo allorché, smessa ogni vocazione religiosa, pensai di ammogliarmi, mi scossi via il profumo d’incenso e di cera che esalava dalle mie vesti, e, vestitemi le ghette mi posi a lavorare la terra. Sentite dunque: era l’ultimo anno della mia… segrestania e ne contavo già ventidue.
Una sera di novembre, all’imbrunire, me ne stavo seduto al di fuori della nostra casetta, sul carro di un vicino, e guardavo in fondo alla via. Siccome faceva freddo nessuno si degnava tenermi compagnia, e anch’io, certo se non fossi stato spinto da un forte motivo, non sarei rimasto là. Vedevo i monti, già coperti di neve, tutti velati di nebbia, sentivo già dal cielo fosco stillare un’umidità gelata che trapassava il mio cappotto, e il vento freddo m’imporporava il naso, eppure non mi muovevo. Il campanile nero di San Giuliano, facendo di tanto in tanto capolino fra la nebbia e le tinte fosche dell’imbrunire, mi avvertiva esser l’ora di recarmi a sonar l’ave, eppure io restavo là duro, stecchito, immemore del mio dovere. Ciò che più mi tentava era l’allegro schioppettare del fuoco, dentro, nella nostra cucinetta calda ove mamma preparava un buon minestrone di fagiuoli con cavoli, un vero lusso sapete, aizzando ogni tanto con la sua voce tremula l’asinello che funzionava ancora, monotono e lento, intorno alla macina in un angolo della cucina. Guardavo ogni tanto il tetto basso e umido che fumava e il pensiero del buon fuoco accresceva il mio freddo, pure non mi muovevo, come fossi incantato. Ah, se, ero proprio incantato. Un’ora prima, all’uscita della novena, Graziarosa, mi aveva detto con mistero:
«Compare Batò, devo parlarvi: attendetemi fra un’ora davanti a casa vostra.»
Graziarosa parlarmi, darmi un convegno! Era una cosa che io non sognavo neppure: perché dovete sapere che, innamorato pazzo di lei, lei non mi aveva mai voluto ascoltare, anzi mi derideva chiamandomi: compare campanile! Come soffrivo Dio Santo! Graziarosa si credeva un gran che perché serviva in casa del Sindaco, il più ricco signore del paese, e accompagnava la padroncina Donna Daniela, a passeggio; era una bella ragazza, Graziarosa, con gli occhi verdi, e io ne andavo pazzo: ma lei non mi dava uno sguardo, anzi pretendeva di maritarsi con un signore! Figuratevi però che signore! Uno che avesse pantaloni, ecco, talché io, esasperato, quando lo seppi, le cantai persino sotto la sua finestra, una canzone infame:
Teracas chi signoras bos cheries..
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Scritto da carlo moretti
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Oggi, miei piccoli amici, voglio raccontarvi una storia che vi commuoverà moltissimo, e che, se non vi commuoverà, non sarà certamente per colpa mia o delle cose che vi narro, ma perché avete il cuore di pietra.
C’era dunque una volta, in un villaggio della Sardegna per il quale voi non siete passati e forse non passerete mai, un uomo cattivo, che non credeva in Dio e non dava mai elemosina ai poveri.
Quest’uomo si chiamava don Juanne Perrez, perché d’origine spagnola, ed era brutto come il demonio. Abitava una casa immensa, ma nera e misteriosa, composta di cento e una stanza, e aveva con sé, per servirlo, una nipotina di quindici anni, chiamata Mariedda.
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Scritto da ztaramonte
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
La mercantessa d’uova, zia Biròra Portale, viaggiava recando un cesto d’uova da Orotelli a Nuoro. Era una notte d’agosto, pura e luminosa come una perla. Sulla grande distesa della pianura di stoppia, la luna gettava una luce viva ed eguale; il cielo era azzurro quasi come di giorno, e solo ad oriente l’orizzonte appariva vaporoso, velando le montagne che sembravano nuvole sorgenti dal mare.
Zia Biròra viaggiava di notte perché viaggiava a piedi, e viaggiava a piedi perché i guadagni del suo commercio erano tanto esigui da non permetterle di viaggiare a cavallo. Figuratevi che tutti i capitali del suo commercio, assai fragili invero, stavano dentro quel cestino intessuto di canne che ella recava sul capo: duecento uova. Ogni tre giorni zia Biròra, comprava duecento uova, le disponeva nel cestino, fra la paglia, e si metteva in viaggio per Nuoro. Col guadagno viveva tre giorni.
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Scritto da ztaramonte
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Poco distante dalla riva del mare un antico pastore pascolava le sue gregge.
Era in un tempo lontanissimo, in una primavera quasi preistorica; ma il paesaggio era quale ancora si ammira adesso, una fresca pianura verde, chiusa da montagne quasi nere sul cielo d’un azzurro chiaro, e lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne capanne dei pastori sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi lunghi capelli e la lunga barba gialla, gli occhi neri circondati di rughe, e vestito di rozzi pannilani e di pelli.
Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so l’etimologia di tal nome, ma ritengo che da questo provenga il moderno Sadurru, che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e la figlia Greca.
Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra capanna e viveva qualche altro pastore.
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Scritto da ztaramonte
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Prologo [6]
Oggi io voglio narrare due graziosissime leggende nostrane alle spirituali lettrici di Vita Sarda. Ora le leggende sono di moda, e nella rinascente fioritura degli studi popolari, verso cui tutti, pensatori, scrittori, poeti, volgono lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove approdare, dopo tante oscure tempeste letterarie, la leggenda ha il primo posto, senza parerlo. La leggenda è aristocratica, è artistica, è volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello spirito fine della signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della popolana; nell’animo sognatore dell’artista e nella percezione spregiudicata e indagatrice dello scienziato. La leggenda richiama l’attenzione del poeta e dello storico, che la sfronda per trovare nel suo fusto le tracce delle generazioni sepolte, l’indole delle generazioni viventi e il germe di quella delle generazioni future.
Può destare lo stesso fremito nei circoli gai dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori riuniti intorno al triste focolare – nei fanciulli e nei grandi -, e può, infine, fornire i materiali per un volume serio, dotto, scientifico, e per un volume di amena lettura, spumoso, elegantemente inutile.
Ho studiato altrove, benché rapidamente, il carattere della leggenda sarda, che, all’infuori dei cicli di leggende sarcastiche, vòlte a porre in satira un dato personaggio o un dato villaggio, ha il profilo serio e melanconico delle tradizioni meridionali.
Dirò qui alla sfuggita che la Sardegna, terra per sé stessa leggendaria e misteriosa, è piena di leggende. Ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia (tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda.
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Scritto da ztaramonte
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Radicatissima è ancora nel popolino sardo la credenza che la scomunica del papa o magari di un semplice sacerdote, apporti davvero maledizione su chi è lanciata e sulle sue generazioni.
A tal proposito ho trovato fra le altre questa leggenda. In un villaggio del circondario di Nuoro c’era un ricco monastero i cui frati spadroneggiavano non solo sulle loro proprietà e sui loro sottoposti, ma in tutte le terre e gli abitanti vicini. Perciò erano sommamente malvisti, e già, segretamente, gli abitanti del villaggio avevano inviato molte suppliche al Santo Padre perché mettesse un freno alle angherie loro. Ma a Roma si pensava ad altro che al piccolo villaggio sardo: allora un gruppo di giovini un po’ scapestrati e senza pregiudizi decise di far qualche tiro ai monaci, che li screditasse presso il papa e segnasse la loro rovina. L’occasione li favorì stranamente. Un giorno di festa, in cui nella chiesa del monastero si facevano solenni funzioni, morì improvvisamente un bambino, forse figlio d’uno dei congiuranti contro i monaci. Senza che nel villaggio se ne spargesse la notizia quei giovanotti presero il cadaverino e lo gettarono, di notte, in un pozzo del chiostro.
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