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Presupposti allo studio del carnevale sardo (1956) di Francesco Alziator

Scritto da carlo moretti

Dal punto di vista del nome del carnevale l’isola ci appare divisa – la divisione è naturalmente assai approssimativa – in cinque zone:

1) quella vastissima del Carnovali, che comprende tutta la parte meridionale, s’arresta intorno ai confini dell’Ogliastra, del Sarcidano ed agli estremi limiti dell’Arborea nella zona delle grandi lagune oristanesi;

2) la piccola zona orientale del Maimone accentrata nell’Ogliastra;

3) quella centrale, di non maggiore estensione, del Coli-coli della Barbagia;

4) quella occidentale, più vasta, del Carrasegare che dal Mandrolisai sale alla Campeda;

5) quella di grandissima estensione di Giorgio che dalle prime propaggini del Meilogu sale per tutto il resto dell’Isola, tutto abbracciando dal mare di Bosa alla Gallura, dalla Nurra al Logudoro e diffondendosi per pianori, valli, montagne e lidi.

Sono estremamente palesi le origini dei nomi Carnevale e Carrasegare, né alcun dubbio che il sostantivo Maimone significhi un essere demoniaco. Oscura, almeno per ora, appare l’etimologia di Coli-coli, né son del tutto chiare le ragioni del nome Giorgio. E’ assai probabile tuttavia che esso abbia origini bizantine e si ricolleghi al culto del santo guerriero la cui tomba, sulla via di Gerusalemme, era particolarmente venerata sin dal periodo nel quale l’Isola era sotto l’impero d’Oriente.

Ricorderemo che anche in Corinzia compare, tra gli Slavi di quella regione, un «verde Giorgio», un ragazzo rivestito di fronde che, in occasione della festività del Santo (23 Aprile), vien buttato in acqua per propiziare le piogge. Particolare della massima importanza e che, assai spesso, il «verde Giorgio» è un fantoccio che al momento del lancio in acqua sostituisce il giovane.

Aggiungerò che a Villanova-Monteleone ed altrove, in provincia di Sassari, Giolgi muore annegato.

Vi sono poi alcuni paesi che non si allineano con gli altri nella denominazione del fantoccio. Barumini lo chiama Papi Pata; Isili usava s’urdi de s’antrecoru; a Desulo è detto Zidicosu; a Mamoiada Mardis Sero, espressione assai chiara in quanto vale sera del martedì, cioè del martedì di Carnevale, e Dorgali ha Radjolu, parente stretto del Lardajolu cagliaritano e campidanese (giobia de Lardajolu = giovedì grasso).

Il processo e la condanna a morte sono variamente eseguiti, anzi, per essere esatti, diremo che il processo resiste sempre meno al volgere degli anni e così avviene del testamento del moribondo, mentre diffusissima e tenace è l’esecuzione della sentenza di morte del Carnevale che tuttora sopravvive nella stessa capitale sarda. Al rogo che è l’esecuzione più comune s’aggiungono talvolta i petardi, celati dentro il fantoccio. Inutile ricordare che i petardi sono sempre gli eredi di più antiche forme di allontanamento degli spiriti.

Qualche volta il fantoccio, che nasconde all’interno una vescica piena di sangue, viene atrocemente pugnalato.

Più spesso però, l’anima del fantoccio è un capace otre di buon vino sardo. Molto diffusa è la morte per impiccagione; non mancano esempi di defenestrazione (Benetutti); di fini ingloriose nel letamaio (Ozieri). Talvolta esso è portato fuori dell’abitato o presso corsi d’acqua. Spesso il morituro è trascinato in groppa ad un cavallo o ad un asino, qualche volta riceve i conforti religiosi e si ha perfino il caso che ne venga fatta l’autopsia (Sinnai).

A Bolotona è seguita dal coro «Zorzi lassa su piachere – ca torra sa Pacha Santa»: a Norbello gli cantano: «Zorzi non ti c’andes – aspetto ca ti frio duos oos »; a Nugheddu lo si piange «Zolzi meu bollitadu»!, il che significa crocifisso, inchiodato, anche se poi è bruciato; a Bolotona: «Zolzi lassa su piantu chi torra Sabadu Santu….»; a Senis, a Cuglieri a Bosa ed altrove è ricercato con lumini dopo morto.

Non pochi sono i paesi sardi nei quali il trasporto del pupazzo e la lamentazione sopravvivono in tutta la loro funebre solennità, mentre nella Penisola scarsi ne sono i relitti e limitati a qualche zona del Meridione e della Sicilia.

La parodia del trasporto funebre, condotta con impeccabile cerimoniale, non offre rilievi degni di attenzione. Particolare assai più notevole è invece il lamento delle prefiche, condotto sul motivo e sui temi degli autentici «attitidus».

La trenodia assume a Cagliari un aspetto piuttosto singolare: la turba dei festaioli segue a passo cadenzato e ripete in coro, in un tempo di 2/4, i versi del compianto: «Mortu Carnovali scancioffau…» commentati ritmicamente dalla grancassa e dai piatti.

Non si conoscono invece per la Sardegna celebrazioni di fidanzamenti o di nozze durante il Carnevale per auspicare fecondità alla terra e felicità al nuovo periodo che s’inizia. Si conoscono però cortei nuziali per finta, come a Nuxis nel Sulcis, con lancio di buccia d’arancia in luogo dei lanci propiziatori della fecondità.

L’Isola presenta inoltre un importante campionario di contese carnevalesche derivanti, con evidenza, da antiche pratiche di propiziazione.

A Meana ed a Laconi, centri della mascherata delle pecore, si hanno lotte tra i rioni né mancano vere «ardie» carnevalesche e corse a pariglia. Una famosa incisione del «Voyage» del Lamarmora ci ha tramandato il ricordo delle pariglie cagliaritane nella contrada di S. Michele.

Pasta in questa luce, anche la Sartiglia oristanese potrebbe apparire come la evoluzione del rito di eliminazione dell’animale simbolo del Carnevale, o piuttosto come una evoluzione di un rito propiziatorio particolare.

Sotto spinte di carattere feudale, religioso e cavalleresco, l’animale è sostituito da un’immagine del nemico o da un qualunque altro simbolo sicché l’antico cruento rito di eliminazione, al quale s’innestano i caratteri ed il rituale cavalleresco, si nobilita e splende di pompe araldiche.

Le contese carnevalesche sarde sono costituite in genere, come si diceva, da una prova di bravura a cavallo: «sa puddada», «is pariglias», «is crobus», ecc., o più generalmente da una giostra il cui bersaglio, reso mobile da opportuni accorgimenti, è un palla o qualcosa del genere.

Qualche volta, come a Dorgali, si ha una gara di tiro all’archibugio, – tre colpi per concorrente – con bersaglio costituito da una palla appesa ad un filo.

Per quanto riguarda possibili sopravvivenze dei Saturnali romani nel periodo carnevalesco della Sardegna vorrei far notare, senza con questa impegnarmi in affermazioni categoriche e premature, sempre nocive alla serietà scientifica, come tanto l’apertura dei Saturnali, quanto il periodo iniziale del Carnevale in Sardegna cominciano con l’uccisione del maiale (XVI° giorno avanti le Calende di gennaio, per i saturnali, secondo la sistemazione di Diocleziano, e XVII° giorno di gennaio, giorno di Sant’Antonio, per la Sardegna).

Altro fatto da tenere nella dovuta considerazione mi pare il permanere dello scambio di doni, ora esclusivamente dolciumi, comune a tutta l’isola, per gli ultimi giorni di Carnevale ed in particolare di statuette in pasta (di mandorla) che un tempo s’usavano scambiare a Bonorva (cogonas, ecc.) nelle quali potrebbero ben trovarsi le estreme testimonianze dei sigillaria di cui tanto si discorre in Microbio.

Massima attrazione del Carnevale sardo sono le maschere animalesche barbaricine.

Qualunque sia l’origine più remota di questa manifestazione, certo è che in Sant’Agostino vi è una sicura testimonianza di mascherate ferine e di maschere animalesche. «Alii vestiuntur pellibus pecudum» è scritto nel CXXIX sermone: «alii assumunt capita bestiarum, gaudentes et exultantes si taliter in ferinas species transformaverint ut nomine non esse videantur…».

E nel successivo sermone CXXX, dedicato come l’altro alle Calende di Gennaio si aggiunge: «…indui ferino abitu, et caprae aut cervo similem fieri ad imaginem Dei et similitudinem factus, sacrificium fiat?».

Dagli esegeti dei due passi è generalmente riportata una Explanatio Canonum di papa Zaccaria, in cui si fa cenno agli «insipientes homines qui… cervulum aut annicula faciunt» ed una disposizione del Concilio di Auxerre, per cui «non licet Kalendis ianuarii vetolo aut cervolo facere…».

Intorno al quarto secolo esistevano dunque maschere ferine e animalesche, tenace perdurare di evidenti manifestazioni pagane, ed il mascherarsi con sembianze di animali appariva agli occhi degli uomini della Chiesa come un sacrilego imbestiarsi poiché l’origine demoniaca della maschera, era, più che mai, presente ai loro occhi.

Come si sa una delle più diffuse maschere europee è il diavolo e, tra quelle sarde, essa è una delle più tenaci a scomparire. «Su tiaulu» del carnevale cagliaritano, un diavolo concepito secondo la tradizione e l’iconografia cristiana, vestito di un aderente abito rosso fuoco, incoronato di appariscenti corna, talvolta ornate di arance, infisse alle due estremità, alla maniera dei pomelli dei bovi raffigurati nei bronzi nuragici e di quelli adornati per le sagre paesane. Una coda ed una maschera nera completavano «su tiaulu».

Il diavolo è presente nella drammatica religiosa sin dal suo più antico esempio: La  passion de Cristo nuestro Señor di Francesco Carmona, datata nel 1629.

Certo, il diavolo è un elemento importante nell’etnos sardo.

Vi è nell’animo degli isolani, specialmente nelle zone meno aggredite dai contatti che livellano, una sorta di fondo manicheo, non estraneo d’altronde alla stessa Grazia Deledda, che potenzia al sommo il bene ed il male, concepiti come due distinti continenti che non è possibile congiungere. Tra il bene e il male non vi è per taluni sardi possibilità di compromesso: la colpa e la grazia sono intravalicabili; esse sono destino originario ed eterno e Satana è despota quanto Jehova.

Tutto ciò non è inutile tener presente a proposito del carattere diabolico delle maschere:

In pochi luoghi come in Sardegna, penso che le teorie del pandiabolismo delle maschere, di il Toschi è così tenace sostenitore, possano trovarsi così abbondante conferma.

Innanzitutto constateremo come in più di una località lo stesso fantoccio del Carnevale è chiamato Maimone, con uno dei nomi coi quali si indica il demonio ed è probabile che non diversa etimologia si debba dare al nome di mamutone¹.

La prima e più appariscente divisione è quella in maschere mute ed in maschere parlanti. Intorno a queste due classi è possibile raggruppare agevolmente tutte le maschere isolane.

Notiamo pure che alle maschere mute appartengono i tipi sicuramente più antichi e anche più importanti del folklore sardo, mentre al secondo gruppo appartengono tipi di origine e importazione recente.

In sostanza, anche la divisione basata sul tipo merceologico della maschera coinciderebbe largamente con la prima. Infatti, alle maschere lignee corrisponde il gruppo delle maschere mute ed alle maschere in cera o cartapesta corrisponde quello delle maschere parlanti. Inutile aggiungere che s’ha da considerare anche il semplice trucco del viso assai frequente nella tipologia dello strato più antico.

Tra le maschere del primo gruppo il tipo più noto è quella dei mamutoni e i loro compagni issocadores, caratteristici di Mamoiada.

Il secondo tipo di maschera muta e lignea è costituito dai beones, boetones, merdules ecc., comuni a parecchi paesi della Barbagia. Gli esemplari più belli ed interessanti sono quelli di Ottana.

La processione dei boes non offre la singolarità coreografica dei mamutones, il suo passo non si distacca da quello del comune incedere e consiste, nell’insieme, in un corteggio di bovini che avanzano aggiogati.

Io ho già espresso altre volte la mia opinione sull’antichità di questa maschera avanzando, con molta cautela, l’ipotesi che la si possa far risalire perfino alla preistoria (F. Alziator – Mimi e bucrani ottanesi, Ca, 1955); ma non vi è dubbio che anch’essa rientra nell’ambito delle maschere demoniache individuate dal Toschi, dal Meuli, dallo Schmith etc.

Connesse in certo senso alle maschere animalesche sono le cacce (is cassas), abbastanza diffuse, particolarmente nella Sardegna meridionale. Assai importante per numero di partecipanti s’ha da considerare quella di Sinnai. I partecipanti, divisi in cacciatori e selvaggina, non portano maschere; i loro visi sono imbrattati.

Le maschere parlanti appartengono, in massima, alle città ed ai centri dove maggiore è stato il passaggio di genti diverse e di diverse influenze. La maschera muta è resto di un rituale che i secoli hanno tramandato di generazione in generazione con sempre maggiore automatismo, con sempre minore coscienza del valore dei gesti e degli abbigliamenti, sino a che quel rituale è divenuto solo forma di cui nessuno più conosce il contenuto.

La maschera parlante implica sempre, anche se minima, la coscienza di quello che essa rappresenta e delle sue finalità. Le maschere mute sono espressioni tipicamente collettive; nelle maschere parlanti prevalgono espressioni individuali. In esse, su un primitivo elemento, si condensano e si assommano più elementi dei quali è poi arduo riconoscere il processo di stratificazione e di emulsione.

Cagliari può rappresentare, da questo punto di vista, un’ottima zona di indagine, poiché vi sono presenti tutti i tipi di maschere; le mute come i «tiaulus», i «maccus», le «rantatiras», quelle parlanti come «sa panettera», «sa viuda», «su piscatori» ed affini, «su dottori», «su seddoresu», e quelle di puro travestimento e decorative.

Questi tipi di origine moderna , non sono molto interessanti dal punto di vista folkloristico se non in qualche caso particolare, come la distinguida algherese, resto di un impenetrabile castismo catalano.

A proposito delle comitive di matti durate sino a qualche decennio fa non è difficile ricollegarle con quella tradizione medioevale che culmina poi in quelle usanze renane alle quali attinse la Narrenschiff, la quale poi, come è noto, non fu estranea all’ispirazione dell’Elogius erasmiano.

Di questa tradizione, assai viva nel Rinascimento, è testimonianza il noto canto carnascialesco di Giambattista dell’Ottonario.

Tra le maschere parlanti la panettera fu per molto tempo la tipica maschera cagliaritana.

La funzione della panettera era in sostanza quella di mettere in piazza i peccati del prossimo, e funzione non diversa avevano la vedova, il dottore, «su seddoresu» ecc.

Come è palese, in queste maschere si è trasferita la funzione di purificazione dei peccati della collettività: i peccati vengono resi pubblici e da ciò la purificazione, come nei testamenti del pupazzo di Carnevale, come in quello del Pitû. Così come anche per il Dottore, la cui comparsa in Europa pare risalga al medioevo (Stumpfl), ma che in Sardegna può quasi sicuramente ritenersi di derivazione spagnola, come testimonia il suo abbigliamento.

Son questi, mi sembra, i presupposti indispensabili per uno studio sistematico del Carnevale Sardo.

IL FOLCLORE SARDO.

In questo secondo saggio l’Alziator ripete le stesse cose del primo aggiungendo solamente i paragrafi seguenti:

…Di recente una giovane studiosa sarda Pietrina Moretti, ha ribadito, con argomenti convincenti, la natura diabolica del Maimone².

La prima e più appariscente divisione è quella in maschere mute e in maschere parlanti.

Intorno a queste due classi è possibile raggruppare agevolmente tutte le maschere isolane.

Ci sembra più legittimo ritenere che i mamutones siano collegati al mondo sotterraneo ed ai culti agrari, ma, tralasciando, volutamente, ogni conclusione, ci limiteremo a segnalarne alcuni significativi termini di confronto: il γέρος di Skyros e i χαλογέροι di Viza, dei quali di recente lo Jeanmarie ammise la derivazione dai riti agrari³, le «botargas» spagnole4, quelle riportate più volte da Leopold Schidt e quelle svizzere e austriache rese ormai popolari perfino dai depliants turistici e dai documentari cinematografici.

Francesco Alziator

- Da LARES, Atti congresso Naz.le delle Tradii. Popolari, CA-NU-SS, Aprile-Maggio 1956- ed. Firenze 1956 pagg. 49-55.

- Da “Il Folklore Sardo”, ed. La Zattera, 1957 – Pagg. 72-81.

(¹) R.. Marchi – Le maschere barbaricine, in «il Ponte», fasc. cit.

(²) P. Moretti – Mamutones e maimones, in «Lares» XX, fasc. III, pagg 179-180

(³) R.M. Dawkins – A visit to Skyros - in «The annual of the British Scool at Athens», XI, 1904-1905 Dawkins – The modern Carnival in Thrace and the cult of Dionysius - in «Journal of Hellenic Studies», XXVI, pag. 191-206; H. Jeanmarie – Dionysos, Paris 1951, pag. 325 e segg.

(4) S. Garcia Sans – Botargas Y enmascarados alcarrenos - in «Revista de Dialectologia y tradiciones populares», IX, 1953, pag. 467 e segg.

() Schmidt – Maschen in Mitteleuropea, Wien 1955, passim.

Francesco Alziator

(Cagliari 1909-1977) – Studioso di Tradizioni Popolari, giornalista e scrittore. Nel 1961 è stato nominato membro dell’Accademia de Buenas Letras dei Barcellona; nel 1969 ottenne l’incarico dall’Università di Sassari come libero docente in Tradizioni Popolari – Innumerevoli le sue pubblicazioni.

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