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Sulla montagna (Grazia Deledda)

Scritto da carlo moretti

È una mattina d’agosto. Sull’ampio cielo, chiuso dalle linee sottili e frastagliate delle montagne, rese turchine dalla lontananza, passano grandi nuvole cenerine, come mandre di nebbia, che svaniscono sui lembi ancora limpidi d’azzurro.
Siamo sul sentiero che mena alla montagna, prima di arrivare ai boschi. Nella notte ha piovuto: il terreno umido, ma senza fango, ha preso dei toni oscuri color tabacco; è attraversato da solchi serpeggianti lasciati dai rigagnoli, e da linee di pietruzze che sembrano di lavagna. Grandi massi di granito, nudi, bruciati dal sole, chiudono il sentiero. Nessun albero ancora: solo grandi macchie di lentischio, e campi di felci dalle foglie dentellate, ingiallite dal sole ardente.
La gente sale lentamente il sentiero, a gruppi, o sparpagliata. V’è di tutto: uomini e donne, signore e paesane dal costume a colori fiammeggianti, con canestri ed involti: e bambini, quanti bambini! Tutti allegri, chiassosi, perché non sono ancora stanchi.
Tutti su, su, a poco a poco, badando di non inciampare, di non lacerarsi le vesti, di non rompersi le scarpette, volgendosi ogni tanto ad ammirare il vasto paesaggio, ripigliando fiato. La brezza fresca, pregna di profumi di boschi umidi, scende dall’alto, viene a scompigliarci i capelli e le vesti.
E si sale, si sale sempre: sotto quel cielo cinereo, nella luce opaca che vi scende, nessuna cosa, nessun colore ha una sfumatura, un luccichio; tutte le gradazioni sono distinte, tutti i profili sono nettamente disegnati: solo una piccola chiesa bianca, alle falde del monte, pare che mandi delle ombre chiare intorno intorno.
Entriamo nel bosco: è un bosco di elci secolari, grandissimi, che ergono al cielo le loro chiome maestose, lussureggianti di verzura, con un sussurro che pare mormori una sfida a tutti gli elementi, dalla procella furiosa dell’inverno al sole di fuoco dell’estate.
Ciò che ci colpisce vivamente all’entrata del bosco è l’inebriante profumo che prima ci veniva leggero con la brezza: è un profumo forte, quasi acre, come di fieno o di polvere bagnata. Certi sbuffi paiono di sigaro, di caffè versato sul fuoco, di vernice umida: certi altri sono invece dolcissimi, come d’incenso e di mirra bruciati.

Come sono belli e pittoreschi i grandi alberi dai tronchi nodosi incavati, ricoperti di muschio, dalle chiome che, riunendosi, formano una volta mobile con tante gradazioni ondeggianti, dal verde giallo al verde rossastro, dal verde chiaro quasi bianco al verde scuro quasi nero! Tra le foglie dal dorso e dalle venature grigiastre, che cambiano di tono ad ogni scossa di vento, scendono grandi rami d’edera con le foglie eleganti di un verde molle e dorato, e da esse grosse gocciole d’acqua che scavano piccole fosse dove cadono.
Ora i grandi massi di granito sono rivestiti da un mantello di muschio e le felci sono verdi, e un ruscello passa fra i giunchi, serpeggiante, come una trina di meandri verdognoli; ora il terreno è coperto da alte erbe e da radici muscose di alberi. L’orizzonte è tutto là, rinchiuso dal bosco, ove la luce piove dall’alto, come una penombra bianca, e le gocce d’acqua tremolanti su tutte le cose hanno un bizzarro scintillio, ma fuggente, ma cupo, come fossero di bronzo.
Cominciamo ad essere stanchi: qualche bimbo geme, le paesane in costume hanno sciolto il loro fazzoletto, di cui rigettano indietro i lembi; i visi sono tutti rosei; il vento ha disfatto i ricci delle signore. Finalmente si è in cima! Sempre bosco: però la chiesetta, che è la nostra meta, non è fra gli alberi, ma su un terreno arido, sparso di pietre, di felci, di fieno secco e macchie di lentischio. Davanti alla chiesa, in basso, vi è una casetta bianca, e dietro il bosco.
Sull’alto del cielo passa una nuvola strana, lunga, con linee rosse: pare un miraggio con le sue forme di cupole, di case e di alberi. Ad est, prima di ricominciare il bosco, vi è ancora un campo di pietre aride, un pozzo, una capanna rovinata e massi, sempre massi di granito; poi, in fondo, all’ultimo limite dell’orizzonte, quasi velata dall’immensa lontananza, una linea pura, disegnata sul confine del cielo; una linea che azzurreggia mollemente col suo colore glauco senza riflessi. È il Mediterraneo!
Il sole brilla di tanto in tanto negli squarci del mantello di nuvole che copre il cielo e getta un bagliore d’oro su tutte le cose, un rapido luccichio che pare un lampo. Entriamo in chiesa: è una povera chiesetta col pavimento polveroso, con le pareti polverose, avvolta in una triste penombra cenerognola nella quale si disegna il cerchio di luce rossastra che getta una lampada ad olio; la linea bruna della balaustrata di ferro divide l’altare dal resto della chiesa. I gradini dell’altare sono ricoperti da una grossa stoffa a linee gialle.
A destra v’è un piccolo cassettone rosso e una panca di legno bianco. L’altare non è arredato con ricchezza, ma lì tutto è pulito, lucido, e sul davanti, ombreggiate dal pizzo della tovaglia bianca, si notano due lettere a colori: V. M.: Vergine Maria.
Lassù la Madonnina bruna bruna sorride tra i fiori vecchi, dietro un vetro reso opaco dal chiaro-scuro: sulla parete è dipinta una tenda, e fiori dai colori e dal disegno sbiaditi. C’è un’ombra vagolante in un angolo: è quella di un vecchio, un poveretto dalle gambe lunghe lunghe, col dorso ricurvo; un corpo che vive in equilibrio, ricoperto di poveri abiti grigi.
Egli prega, con le grandi mani secche giunte, col corpo dondolante. Un bimbo gli tira il grosso piede: egli non si muove. Gli tira il lembo lacero della giacchetta, e non si muove neppure.
Dondola sempre: ha chiuso gli occhi: prega, pensa o dorme? Siamo in una cumbissia (così si chiamano le stanzette terrene che circondano la chiesa). La stanza è lunga, irregolare, bianca. Un pezzo di grossa tela ingiallita sta inchiodato al finestrino, perché non penetri il vento: la luce è scialba, fumosa, pregna degli odori caldi delle vivande: si pranza. Di solito si pranza sempre fuori, al fresco degli alberi; ma questa volta, poiché minaccia di piovere, si è apparecchiata la tavola dentro.
Le tovaglie sono stese per terra; i piatti scintillano come se contenessero acqua; il vino tremola e rosseggia nei bicchieri, nelle bottiglie di vetro; colonnine di fumo caldo si alzano dai grandi vassoi colmi di vivande. Fra le masserizie, accanto a qualche cuscino bianco che pare damascato, stanno grandi cocomeri dal verde lucido e cupo, dalle piccole venature gialle, e grappoli d’uva dal verde-oro e dal nero turchiniccio.
Siamo diciassette intorno a questa mensa democratica: nell’ombra della porta risplende un visino di bimba pallida, bionda, dagli occhi azzurri: un tipo di madonnina, mentre in piena luce, vicino al suo fucile dalla canna lucente, c’è un viso barbuto e bruno di pastore.
Nel pomeriggio si balla. Il cielo è ancora cinereo, la brezza fresca passa sugli alberi, che si scuotono con un fruscio d’acqua scrosciante. Intorno intorno stanno legati, ai tronchi, cavalli di tinte diverse, dal nero al color caffè e latte: cavalli alti ed eleganti e ronzini dagli occhi di ciuco, semichiusi e melanconici.
Un giovine, semi sdraiato fra due pietre, suona una fisarmonica dalle note stridenti, tristi od allegre secondo i passi. Ci sono gruppi di signori e signorini e gruppi di paesane con la bocca schiusa al sorriso; e una fila di signore e signorine dalle alte pettinature; un arcobaleno di vestiti, costumi, scialletti avvolti intorno alla vita.
Le coppie danzanti però sono poche, e la polvere quasi indistinta che sollevano i loro piedi striscianti si sperde giù, tra il fitto degli alberi. Il cielo getta un cupo pallore sui visi, sulle vesti; niente animazione; solo un leggero bisbiglio e il suono della fisarmonica; e il susurro del vento che passa sull’alto del bosco.
Ma ogni tanto passa come un guizzo di luce rosea e tremolante: forse è il riflesso della larga e graziosa gonnellina colorrosa di una ballerina.
E si ritorna.
Siamo di nuovo nel bosco: e si scende allegramente, perché è stata una giornata quasi noiosa. Il cielo pare una lugubre volta di bronzo, immobile, senza una linea che vari. Dalla cima della montagna scendono le ultime note della fisarmonica, mentre l’eco triste ripete il cupo brontolio dei tuoni lontani. Fra gli squarci del bosco si vedono le cime delle montagne che chiudono l’orizzonte, flagellate da lampi rossi che s’incrociano come lame di spade di fuoco. Piove: eppure tutto è bello così, perché velato come da una garza d’argento: sembra un paesaggio lontano di cui non si distinguano bene che le more nere luccicanti tra i rovi, e le foglie delle felci che paiono di vetro giallo.
La pioggia passa, le nuvole si sciolgono, grandi nembi di cielo azzurro illuminano l’atmosfera.
Un occhio di fuoco appare in lontananza. È il sole fra le nubi che, prima di tramontare, ci manda un ultimo sorriso, un ultimo scintillio così vivido che pare una pioggia di diamanti. Sul cielo, sul bosco, sulle montagne passa un bagliore di fiamma che incanta. Poi il sole tramonta, lasciando dietro di sé un solco luminoso; un mantello di porpora e d’argento.
E viene il crepuscolo con le sue ombre cineree: nella valle brillano i fuochi di lontani pastori, e sul cielo, ove al raggio del sole sparvero le nubi, appaiono le prime stelle della sera. I cavalli scendono galoppando dalla montagna e spariscono giù come macchie brune. I grilli mandano il loro primo stridio dal ritmo monotono, e i massi, gli alberi, le macchie di lentischio assumono nell’ombra strane forme nebbiose, d’immensi fantasmi, di rovine, di giganteschi nuraghes, di torri nere e misteriose.
Siamo scese: ci sediamo stanche e silenziose, ravvolte nei nostri scialli e guardiamo la montagna, la valle, l’orizzonte. Il cielo è limpido, la terra bruna, e su tutte le cose regnano i primi silenzi della notte.

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  1. BENITO dice,

    SARDIGNA AJO’ FORZA PARIS.
    …………………………………….CIAO.

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