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Contos de foghile – Il castello di Galtellì.

Scritto da ztaramonte

Quarto racconto tratto da “Leggende sarde” scritte da Grazia Deledda. Ci siamo spostati verso la costa orientale della Sardegna e presso la marina di Orosei anche se il luogo è all’interno. Vi auguro una buona lettura.

Carlo Moretti

“Contados – Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8

Una notte dello scorso dicembre restai più di due ore ascoltando attentamente una donna di Orosei che mi narrava le leggende del castello di Galtellì [4].

Il suo accento era così sincero e la sua convinzione così radicata che spesso io la fissavo con un indefinibile sussulto, chiedendomi se, per caso, queste bizzarre storie a base di soprannaturale, che corrono pei casolari del popolo, non hanno un fondamento, e qualcosa di vero.

Il castello di Galtellì – la Civitas Galtellina, altre volte così fiorente e popolata, ora decaduta in miserabile villaggio – è interamente distrutto; restano solo i ruderi neri e desolati, dominanti il triste villaggio, muti e severi nel paesaggio misterioso.

La leggenda circonda quelle meste rovine con un cerchio magico di credenze strane, fra cui la principale è che l’ultimo Barone, ovvero lo spirito suo, vegli giorno e notte sugli avanzi del castello, in guardia dei suoi tesori nascosti.

Di giorno è invisibile, ma nella notte, sia calma o procellosa, chi si azzarda a visitare le rovine vede il Barone passeggiare lentamente, intorno intorno, vagando per i roveti e i massi, o lungo le nere muraglie, ricordando i giorni fastosi della sua esistenza. È giovine ancora, tristissimo in viso, vestito alla medioevale, con la spada al fianco e il collo circondato dal vaporoso collare di lattughe trapuntate. Qual fato lo ha condannato a vagare così, sempre, per secoli e secoli, sulle rovine del suo superbo maniero, ritrovo un giorno di letizia e di splendida potenza? Non si sa; forse è una scomunica del papa, forse una maledizione particolare. Oltre a lui si crede che altri spiriti, ancora in forma umana, esistenti nel castello, vaghino in sotterranee stanze, ma che non escano mai.

È la famiglia dell’ultimo Barone: la moglie, la figlia, il genero ed un nipotino, nato, quest’ultimo, nel modo strano che racconterò poi.

Come in Castel Doria si dice che anche qui ci sia un condotto sotterraneo, però questo conduce assai lontano, sino ai castelli del sud dell’isola, sino a Cagliari anzi, attraversando grandi catene di montagne, fiumi e pianure!

Lo spirito del Barone è mite e generoso. Non ha mai fatto del male a nessuno, anzi ha spesso beneficato dei poveri viventi. Una volta un misero contadino del villaggio, mentre ritornava dalla campagna con un fascio di legna sulle spalle, sopravvenutagli la sera in cammino, si fermò un momento ai piedi del castello rovinato.

La notte era freddissima, ma la luna splendeva vivamente, e il contadino poté distinguere un signore che passeggiava sulle alture vicine. Curioso e coraggioso il contadino salì un poco più su e guardò questo bizzarro signore che si permetteva di passeggiare tranquillamente in tal luogo e così tanto freddo.

Il signore allora si accorse di lui e si fermò. Era biondo e soave di volto, con due grandi occhi vitrei ed appannati, immersi nel dolore di una eterna tristezza. «Chi sei?», chiese dolcemente al viandante.

Sentita la risposta, guardò fissamente il fascio della legna che il contadino aveva deposto nel sentiero, e disse: «Mia figlia e mia moglie hanno tanto freddo, tanto! Vuoi tu darmi la tua legna?..».

«E perché no?», esclamò l’altro conquiso dalle belle maniere del misterioso signore. E trasportò il fascio sulle rovine, e non volle accettare la piccola ricompensa che il signore voleva dargli. Ma poco tempo dopo tutti nel villaggio videro una cosa sorprendente. Il povero contadino acquistava terreni, case, pascoli e spendeva come un riccone. In breve egli diventò il più benestante del paese, e per liberarsi dalla fama di ladro o che, dovette rivelare la verità. Dopo la prima notte egli era ritornato molte volte al castello e aveva provveduto di legna, per tutto l’inverno, gli abitanti invisibili e spirituali di quelle rovine. In cambio il Barone gli aveva donato molte e molte borse piene d’oro!

La leggenda poi, o la tradizione, che pare recentissima, del nipotino del Barone è questa.

Una notte una donna del villaggio sentì picchiare alla sua porta, e apertala vide un cavaliere magnificamente vestito, che le disse: «Presto, venite con me. Si ha bisogno di voi!».

Essa, che era poverissima e che trovava pochissime occasioni di tentare la fortuna, non si fece pregare. Vestì la sua tunica e seguì il cavaliere, che camminava rapidamente, senza fare il minimo rumore, davanti a lei. Attraversarono il villaggio e uscirono in campagna. La donna, inquieta, chiese: «Ma per dove mi conduce, monsignore?».

«Venite e non temete di nulla!», rispose lui. La sua voce era così gentile e soave che la donna si rassicurò e continuò a seguirlo in silenzio. Il cavaliere la condusse alle rovine del castello e pigliandola per mano l’introdusse nelle sale sotterranee di cui essa aveva tante volte sentito parlare.

Queste sale erano uno splendore di lusso e di magnificenza. Coperte di arazzi e di cortinaggi di broccato, ammobiliate come deve essere ammobiliato il Paradiso, venivano illuminate da grandi candelabri d’oro e di perle preziose. In una di esse v’era un letto ricchissimo, e su stava coricata una giovine dama pallidissima e bella, in preda a crudeli sofferenze. Un’altra dama, più vecchia, bella e soave anch’essa, l’assisteva, e un giovine cavaliere andava disperatamente da un capo all’altro della sala.

Più tardi, la donna presentava, affondato fra nastri e trine, un bellissimo pargoletto, dicendo alla dama attempata: «Ecco un grazioso dono, monsignora!…».

Ma la dama, baciato il bambino, sorrise tristemente e rispose: «Ma non è del tuo mondo, buona donna!…».

Finito tutto, il cavaliere vecchio riprese per mano la donna, la condusse fuori e l’accompagnò fino a casa sua. Rimasta sola essa si meravigliò del come non era stata ricompensata da quella strana gente, ma l’indomani mattina, aprendo la porta, trovò sul limitare una gran borsa piena di monete d’oro.

«Per ciò», concluse la donna che mi schizzò le leggende del castello di Galtellì, «per ciò ora i discendenti di quella donna sono fra i più ricchi del paese!»

Note:

[1] Questa premessa e le leggende “Il diavolo cervo”, “La leggenda di Aggius”, “La leggenda di Castel Doria”, “Il castello di Galtellì”, “La leggenda di Gonare”, “San Pietro di Sorres”, “La scomunica di Ollolai”, “Madama Galdona”, sono state pubblicate in Natura ed Arte, 15 aprile 1894.

[4] Castel Roccioso.

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  1. Angelino Tedde dice,

    In questi racconti della Deledda, la cui scrittura mi appare un pò trasandata e poco elaborata, c’è tuttavia l’anima di quei racconti che le nostre mamme narravano non tanto al focolare, nelle serate invernali, ma piuttosto nei crocchi de su giannile, nelle serate estive, quando il bel tempo permetteva loro di attardarsi con le comari e con i i loro figli di tre o quatro anni, quando le favole narrate ai bambini prendono forma e colore. Io stesso, in questo periodo di piacevole sosta a Chiaramonti, racconto alla mia piccola nipotina Alice Maria, di due anni e mezzo, storie vicine alla sua esperienza. In particolare le mie monellerie di bambino distratto e disobbediente. Quando mamma Serafina Linda mi mandava in Piatta a comprare qualche chilo di pasta, in genere incrociavo i compagni che giocavano a bagliaroculos in Piatta de s’Avvocadu e mi univo a loro, dimenticando su cumandu e la storia finiva che mamma mi sorprendeva giocando e me ne dava di santa ragione; oppure la volta che a 4 anni mi recai a fare il pieno di caos in Cudinas, mamma da Pala e Litu mi chiamava gridando Angelinu, al ritorno erano altre busse; oppure le racconto della volta che per bagnare con l’acqua le compagnette sono finito dentro l’abbeveratoio che stava accanto al palazzo razionalistico di Baiardo, fui salvato da Giovannino Biddau e per asciugarmi corsi in un angolo assolato presso cui dopo un pò comparve mio padre trovandomi ancora zuppo come un pulcino, spogliato e sussato da mamma Serafina Linda, sono finito a letto, visto che di cambio d’abiti allora non se ne parlava. La piccola Alice Maria a sentire queste storie di Angelinu esclama: ” Nonno, però, eri proprio monello”. La fantasia dei fantasmi alla Deledda la libero nei romanzi gialli e nei racconti. A proposito ho dato inizio al giallo noir rosa dal titolo Il marchio dalla protòme taurina. Ambienti: il territorio ad est di Miramonti; l’investigatore il maresciallo Zavattaro e il killer?
    Non saprei dirvelo nemmeno io. Deve farsi avanti. Gli assassinati: tre archelogos sardos.
    Grazie webmaster per l’occasione.
    Angelino

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